Stalking è un termine che in Italia si traduce con “sindrome del molestatore assillante”.
Una parola rubata al mondo dei cacciatori, che rimanda agli appostamenti e all’inseguimento di una preda, di nascosto, subdolamente. E che nel linguaggio del crimine è diventata il sinonimo di un comportamento complesso nel quale lo stalker, il molestatore, cerca la sorveglianza, il contatto, il controllo della sua vittima.
Nel manuale di classificazione dell’ FBI lo stalking viene dopo il capitolo sulle minacce: succede infatti che a un certo punto le minacce non siano più sufficienti. Lo stalker non è capace di fermarsi, diventa aggressivo e violento, fino ad arrivare all’omicidio. Quando questo accade, a spingere l’assassino non c’è un guadagno materiale o un bisogno sadico e sessuale. Ad armargli la mano sono la frustrazione, l’invidia, la rabbia. Nella mente di uno stalker può esserci un disturbo mentale grave, ma ci sono anche casi in cui il rapporto con la realtà è perfettamente conservato.
Sono i due estremi di una scala che si basa sulla tipologia e la natura della relazione tra l’aggressore e la sua vittima. In assenza di un vero rapporto tra i due, questo esiste solo nella mente del molestatore. In altri casi invece la vittima e carnefice hanno una relazione storica che li unisce, un matrimonio, un legame sentimentale. Tra un estremo e l’altro c’è una grande gamma di storie e situazioni. L’aggressore potrebbe aver avuto delle frequentazioni anche sentimentali con il suo “bersaglio” una o due volte, o neppure questo. Il bersaglio potrebbe solo aver sorriso e salutato mentre passava, o i due possono essersi conosciuti in occasioni sociali o professionali.
Nella maggior parte dei casi il molestatore è un uomo, ma non sono rari i casi in cui una donna può trasformarsi in una cacciatrice, ossessiva e pericolosa.
( Massimo Picozzi )
